Il mio primo esame orale

Ipotizzo due motivi per i quali il professore non mi ha scambiato per un cadavere: uno, che forse non sono il primo ragazzo che si presenta all'orale colorato di un bianco cencio, e due, che il battito frenetico delle ciglia causato dalle lenti a contatto secche mi davano il movimento sufficiente per non farmi scambiare per un morto. Per il resto, ero proprio tale e quale a un cadavere. Mancava giusto il rigor mortis, ecco.

Vabbè. Quando il terzo ragazzo si alza, io faccio appena in tempo a capire che tocca a me che il professore chiama il mio nome. Non ho tempo di sprofondare, perché mi devo alzare. Non ho tempo di spiegare che io in realtà non volevo iscrivermi all'università, che forse è meglio se ritorno la prossima volta, che io avrei tanto voluto fare il fruttivendolo.

Insomma vado lì, il professore mi guarda con fare orgoglioso.
"Sai, anche un grande giocatore dell'Inter si chiamava Alessandro Bianchi."
Sta per l'Inter. Finalmente la passione (ossessione psicopatica, per dirla in termini clinicamente corretti) di mio padre torna utile a qualcosa.
"Sì, ha giocato anche nel Cesena" faccio io soddisfatto. Tra papà, Luca e Federico Bertini conosco a memoria la biografia di 'sto Alessandro Bianchi. Lo sapevo che un giorno sarebbe stata significativa per la mia crescita.

Poi comincia l'orale. Mi impappino più o meno quaranta volte nella prima domanda. La seconda la dico perfetta: era il mio cavallo di battaglia. Ovviamente, la grammatica. Vado sempre forte nelle grammatiche, che siano linguistiche o informatiche. Terza domanda: faccio pena. Che poi sono un deficiente. Mi fa "Ma cosa hai sbagliato nel primo compitino?" e io, ingenuo e innocente come un candido bambino di cinque anni: "Credo di aver sbagliato a tipare una funzione..." e lui, malefico: "Ecco, volevo giusto chiederti i tipi...". Faccina sarcastica.

Mi scrive il voto su un foglio, e per un secondo penso che si sia sbagliato. Per forza. Dico che va benissimo prima che abbia il tempo di accorgersene, e mi chiappo il mio numeretto. Mentre mi guarda il libretto per segnare tutti i codici, mormora "Sei di Lucca..." e io prontissimo e preparatissimo: "Alessandro Bianchi ha giocato anche nella Lucchese." "Davvero?" "Sì." "Era un giocatore bravissimo..."
Tiè, questa non la sapeva. E ringraziando mentalmente i miei genitori per avermi dato il nome che porto, mi allontano dall'aula, decisamente più colorito.

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