Primo tentativo: vari pezzi di carta sparsi per la stanza. Alcuni appallottolati, altri semplicemente gettati per terra. Diverse cancellature condannano le poche parole impresse su di essi.
Secondo tentativo: un foglio bianco accartocciato che troneggia sulla sommità del cestino, come se si volesse imporre sull’altra immondizia. Mostra alcune parole trapassate da righe severe che ne sottolineano l’inadeguatezza.
Cara Aurora,
non ci crederai, ma non trovo le parole. Proprio io, il ragazzo forte e determinato. Quello che non indugia mai, che sa sempre cosa fare, e che quando si impegna riesce a trovare una soluzione che metta d’accordo tutti. Io, Filippo. Mi trovo in imbarazzo e pure un po’ spaesato, perché ciò che dovrei scriverti non riesce a trovare una collocazione su questo pezzo di carta. Tu diresti che è colpa della penna, ma io non credo sia così. Ho provato a sostituirla, e non è cambiato nulla. Forse in questi casi le parole giuste sono quelle più dirette. Forse tutti i tentativi di rendere dolce ciò che è inevitabilmente amaro sono vani, e allora è inutile anche solo perderci del tempo. Aurora, tra noi non può continuare. All’inizio è stato bello, fantastico, meraviglioso, ma adesso sono stanco, veramente molto stanco, e sarebbe scorretto e vile da parte mia non dirti che la colpa di tutto questo sia tua. Tutta.
Terzo tentativo: un file di testo lampeggia sul monitor del computer.
Cara Aurora,
sono circa cinque notti che mi siedo davanti alla scrivania con la stessa intenzione, e sono cinque notti che non riesco a realizzarla. Si tratta di scriverti. Questa sera la penna ha sputato alcune parole. Tutte sbagliate. Dovresti vedere la mia stanza ricoperta da pallottole di carta per capire. Tu non saresti molto contenta. Mi diresti che gli alberi piangono quando si spreca la carta (e magari useresti quella che ho qui per costruire un castello). Così ho deciso di scrivere al computer: almeno non danneggerò la natura.
Cinque giorni fa tornai a casa che ero veramente incazzato. Scusami, lo so che non ti piace quando uso queste parole. Ti avevo portata fuori a cena. Ero anche stato attento a non scegliere un ristorante troppo elegante né troppo frequentato, perché so che li odi. C’era anche la luna piena, e dici sempre che la luna è contenta quando è piena, e che quando la luna è contenta sei contenta anche tu. Per tre ore sono stato completamente tuo, e contemporaneamente ero rapito dal pensiero di quello che sarebbe successo dopo. A mezzanotte, quasi mi tradii quando mi sono voltato per cercare un cameriere che stava puntualmente arrivando. Ci servì due biscotti. Non ti lamentasti nemmeno del fatto che avevi ordinato la torta alle mele: sapevo che non l’avresti fatto. Iniziai a mordere il mio biscotto che già tradivo un sorriso, ma mi sforzai di guardare il mio piatto ostentando un’indifferenza che mi è costata tanta concentrazione. Per forza: non sono mai stato così in ansia. “Uh!” La tua esclamazione di sorpresa interruppe il mio cuore. Non pensavo che potesse smettere di battere per così tanto tempo. Sollevai lo sguardo giusto in tempo per vederti estrarre il biglietto dal biscotto. Avevi nel volto la solita espressione bambina di sempre, curiosa e trasognata. Potevo seguire i tuoi occhi azzurri mentre scorrevano sulle parole del biglietto. Vuoi sposarmi? c’era scritto. Hai cominciato a ridere, e quando mi hai guardato i tuoi occhi brillavano felici. E così mi sono unito a te, a ridere con te, e forse anche i miei occhi hanno brillato felici come i tuoi. E poi, sempre col sorriso sulle labbra, mi hai detto… “No”. Non ho capito subito ciò che avevi detto. Probabilmente non avevo ancora la capacità di connettere una parola tanto malvagia alla reazione gioiosa di un momento prima. Eppure me lo hai ripetuto: “No”. “No? In che senso?” Lentamente il mondo si stava distruggendo: vedevo i camerieri sprofondare nelle crepe del terreno, e i tavoli cadere, e le luci crollare dal soffitto, e la terra e l’aria scuotersi. Ma doveva succedere nella mia testa, perché tu non battevi ciglio e continuavi a fissarmi, intanto che giocherellavi con la treccia bionda dei tuoi capelli. “Non voglio sposarti, Fil. Ci sono tante altre persone al mondo che voglio amare. Questa cosa che voi fate, il matrimonio… Funziona tra due persone, e esclude i cinque miliardi e novecentonovantanove milioni e novecentonovantanove mila novecento novantotto che restano. No, Fil, non possiamo permetterci di lasciarli tutti fuori”. Ad ogni tua parola che ascoltavo ero sempre più basito. Ti conosco bene, e non avrebbe dovuto sorprendermi una filosofia del genere. Ma proprio perché ti conosco bene so che non avresti mai cambiato idea. “Ma tu… mi ami!” provai a ribattere, conscio che ogni confutazione razionale sarebbe stata vana con le tue strambe idee sull’amore. “Certo che ti amo… Tu?” E già sorridevi, come se tutte le parole che avevi appena pronunciato fossero evaporate, e per questo non più degne di essere considerate. Invece no. Io ero rimasto ferito dalla tua sentenza. Non ti risposi. Lasciai dei soldi sul tavolo, poi mi alzai e me ne andai via.
Forse ti starai chiedendo come mai ti abbia ripetuto tutto questo. Ebbene, non sono così sicuro che tu abbia realizzato di avermi fatto molto male, e non escludo che tu abbia già dimenticato quel che mi hai detto. Invece devi sapere come mai ti sto per lasciare.
Così finisce quel che chiamavamo la nostra fiaba. Senza un E vissero felici e contenti. Ti ricordi il nostro C’era una volta? Come tutto è iniziato? In libreria, un inverno di sette anni fa. Stavo cercando una copia de La Sirenetta da regalare a mia nipote, ricordi? Quando finalmente la trovo, mi compari davanti, strappandomi il libro dalle mani. Sembravi disperata, ma l’unica cosa che notai fu la luce azzurrina dei tuoi occhi. “Non è come pensi: è una storia triste! Non comprarla, non comprarla, ti prego…”. Eri abbattuta, mentre cercavi con tutte le tue forze di convincermi a cambiare libro, a scegliere i fratelli Grimm, o Collodi, o Edipo. Solo adesso, in questo preciso istante, capisco che in quella libreria, in quel Dicembre freddo di sette anni fa, tu già mi amavi. E che in quel ristorante di cinque giorni fa, tu ancora mi amavi. E che nel frattempo tu hai avuto modo di raccontarmi tutte le tue fiabe preferite, centinaia e centinaia di volte.
Quarto tentativo: un bigliettino piegato in due, posato sul comodino. Pronto per essere infilato di nascosto nella borsa di una ragazza dagli occhi azzurri.
Cara Aurora,
a volte sono un po’ ottuso, e non arrivo a capire nemmeno ciò a cui un bambino arriverebbe con semplicità. Per questo ci sei tu con me.
Ti amo.
Tuo Fil
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