Bene. Vorrei raccontarvi due storie.
La seconda storia, invece, riguarda me. Toh, pensa. Alcuni di voi forse si ricorderanno di
Tredici settimane di felicità. Per fare un riassunto, tempo fa iniziai a scrivere un quadernino. Col proposito che ogni giorno avrei trovato da scrivere una cosa bella che mi era accaduta, e avrei fatto questo per novantuno giorni. Ora, c'è da dire che io sono una persona geneticamente realista e malinconica. Prima che possiate pensare le peggiori critiche, vorrei specificare che io ho accettato questa negatività insita in me, e non la considero affatto un difetto. Vedo le cose in una maniera diversa rispetto a come le vedono le persone positive e ottimiste, e
non è peggio né meglio: è semplicemente diverso.
Ma torniamo alla storia di Ventisei. Anche lui si sentiva diverso rispetto agli altri. Diverso perché, abituato a cogliere le occasioni della vita per crescere, anche le cose che lo facevano soffrire erano per lui un qualcosa su cui lavorare. Cosa che gli sembrava non facesse nessun altro. Ventisei era estremamente convinto che sì, aveva bisogno di una piccola dose di fortuna, ma che fosse inutile starsene con le mani in mano aspettando che la vita gli proponesse le occasioni già confezionate. E quindi si dava da fare, cercando per prima cosa di stare bene con sé stesso.
Perché - Ventisei se lo ripeteva da tempo -
è quando stai bene con te stesso che stai davvero bene.
Ho scritto che sono una persona tendenzialmente malinconica. Pur avendo accettato questo mio essere, devo ammettere che mi ha procurato non poche difficoltà nel compilare il quadernino. Per una persona abituata a notare quell'unica nuvola grigia nel cielo sereno, scrivere una cosa bella ogni giorno non è semplice, ve lo garantisco. E all'inizio ero veramente in difficoltà. Mi sono ritrovato a scrivere sul quaderno cose come: "
lo yogurt all'ananas, ehm, fantastico". O anche: "
i boxer dell'H&M non sono ancora scoloriti, evviva". Mi faccio quasi pena. Tuttavia, a poco a poco ho iniziato a scorgere anche un po' di cielo. Apprezzavo le piccole cose, ero felice per i successi dei miei amici, ero sereno.
Ero... pronto.
Ventisei adesso sta di nuovo male. Accetta a fatica la parola F I N E, e non trova le forze di aprire una nuova pagina e cominciare a scrivere I N I Z I O, un po' perché non ci sono parole con cui iniziare, e un po' perché il capitolo precedente era davvero meraviglioso. Lo so, questa metafora del libro della vita e delle pagine e di tutto il resto è un po' inflazionata e sarebbe il caso di darci un taglio, ma non me ne venivano altre. Mica mi pagano per scrivere sul blog. Resta il fatto che Ventisei è scoraggiato. Un nuovo capitolo, un altro ancora? Si chiede chi glielo faccia fare. Si chiede il motivo, visto che prima o poi finirà, di nuovo, e lui starà male. Di nuovo.
È per questo che scrivo questo post. Per dire delle cose a Ventisei. Per dirgli che deve stare tranquillo, che può prendersi tutto il tempo che vuole prima di ricominciare. Che non c'è nessuna fretta. Che sì, serve un po' di fortuna, checché ti dicano i tuoi amici, ma prima o poi la ruota gira. Che ancora una volta devi essere forte, e essere coraggioso, perché credimi, Ventisei: in pochi sono coraggiosi quanto te. Ed è lo stesso se ora ti viene solo da piangere, perché piangere non è un reato, e non è nemmeno una cosa di cui vergognarsi. In un laboratorio di pc dell'università ci sono io, e sto piangendo per te. Io credo in te, Ventisei. E ti dico, ti grido, che puoi contare su di me. Non sei solo: ci sono io. Questo finale non è il vero finale. È solo UN finale. Perché se vado a riprendere quel quadernino, all'ultima pagina trovo scritto:
Giorno 91
Sto bene.
Ed è questo il finale che avrà anche il tuo libro. Lo so, che sarà così. Basta solo che non ti dimentichi che non sei solo. Ci sono io, ci sarò sempre. Attenderemo quel finale insieme.
Un'altra volta.