Sipario (cinque minuti di nero)


Ho sempre pianto spesso. Da bambino piangevo in pubblico, senza neppure vergognarmene quando si trattava di questioni altamente drammatiche come mamma che non mi comprava il librino. Quella è stata anche l'unica volta che mi ha tirato due scapaccioni, e ancora al giorno d'oggi, ai pranzi di Natale pieni di parenti, viene ricordato quell'evento come l'unico caso in cui non avevo fatto il bravo.

Anche da adolescente piangevo, ma avevo paura a farlo in pubblico. Io, ragazzino influenzabile succube di tutte quelle norme sociali che se non seguivi ti portavano ad essere emarginato, norme come Non piangere, alzavo la musica e mi chiudevo in camera, rannicchiandomi sul letto con le ginocchia vicine al mento, e i palmi delle mani sugli occhi, per cinque minuti di nero. Cinque minuti di nero, e poi cinque minuti in cui strusciavo le mani sul piumone per assorbire le lacrime che lo avevano bagnato.

Poi, sapete, si cresce, si impara a sfogarsi in altre maniere. Ognuno ha le sue, e per esempio, che ne so, uno può scoprire che gli piace tanto scrivere, e che scrivendo gli riesce abbastanza bene dire quello che a voce proprio non gli viene. Quanti complessi, anche per questo. Ma perché non ho capito subito che dovevo fregarmene di quello che è normale fare? Normale. Il fatto è che mi veniva detto che io delle cose dovevo parlare, parlare a quattr'occhi, che le altre forme di comunicazione erano strambe.

Così ho imparato a parlare. Magari all'inizio posso apparire un po' distaccato, o riservato, o timido, o remissivo, o introverso a livelli patologici, ma poi mi sciolgo e sostengo conversazioni anche brillanti. Il teatro, signori, è la migliore medicina per la società. La migliore lezione di psicologia è contenuta in un copione. La drammaturgia è la più intelligente concentrazione di studi sull'umanità. E così ho imparato a parlare, e così ho imparato a stare nel mondo, insegnamento che tutto sommato non me la sento di rinnegare.

Qualche volta, poi, succede che torno adolescente e mi butto sul letto e mi rinchiudo nei miei cinque minuti di nero.

Niente. Non ci sarà una morale per questa cosa che ho scritto. Non ci sarà un lieto fine, o un risvolto comico, o una conclusione che dia un senso. Non richiederò opinioni, o consigli, o lezioni di vita, perché a sbagliare sono bravo anche da me. Solo, mi andava di sfruttare uno dei mezzi di comunicazione del nuovo millennio per condividere dei pensieri, forse qualche richiesta, certamente un flusso di coscienza abilmente mascherato dall'allineamento giustificato di questo testo, e mi andava di farlo con lo strumento espressivo che preferisco.




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